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“La morte di Auguste”. In libreria un Simenon del ’66

“La morte di Auguste”. In libreria un Simenon del ’66

Foto Getty

il romanzo

Tre fratelli, le mogli, i soldi. Ancora una volta, il demone della letteratura (che scrive in quello stesso anno altre due opere) si mostra cieco ai generi e alle etichette

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Adelphi, dacci oggi il nostro Simenon stagionale. Curioso come un autore così pazzamente prolifico, quanto un Casanova lo era con gli amori, possa non perdere mai la sua capacità di raccontare i difetti e l’animo umano. Ogni volta che si inizia un romanzo (duro o Maigret) ci si butta dentro, come in un fiume familiare di cui pensiamo di poter conoscere il percorso ma non il finale. E nonostante ci sia un confortante schema, e tic e immagini riconoscibili (come i grandi seni di molte figure femminili, immancabili), ogni volta si resta rapiti dalla chiarezza con cui si possono raccontare le dinamiche sociali, anche le più meschine e banali. La morte di Auguste (Adelphi, traduzione di L. Frausin Guarino) esce nel 1966, nello stesso anno scrive anche Le Confessionnal e Maigret e il caso Nahour. Un anno di normale produzione per l’organizzatissimo Simenon che quell’anno, a 63 anni, vince anche il grande premio del Mistery Writers of America, ennesimo segnale che la sua produzione è vista come “di genere”, solo perché spesso ci sono sbirri e omicidi. Ma ne La morte di Auguste, appunto, ci conferma come il demone della letteratura sia cieco ai generi e alle etichette che si mettono sulle mensole delle librerie.

Un uomo, appunto, il vecchio ristoratore Auguste, muore. Crolla di colpo nella sala mentre sta lavorando, e la cena di sotto continua dopo che viene portato nel letto. Ma la fase Ivan Il’icč dura poco, perché più che un esame di coscienza del defunto, la dinamica interessante si sviluppa tra i tre fratelli, e tra le rispettive mogli e fidanzate. Anche se Auguste era un figlio di un bracciante che “non sapeva né leggere né scrivere”, e che viveva in una casa scomoda vicino a dove passeggiavano le prostitute, aveva messo su un buon business. Nel ristorante che aveva aperto a Parigi, specialità dell’Alvernia, ci andavano ministri, delegazioni diplomatiche, donne glamour, e aveva addirittura vinto due stelle Michelin. Da tavola calda per gli scaricatori dei mercati di Les Halles – il ventre di Parigi, come diceva Zola – il ristorante di Auguste è the place to be. Ma non si capisce il vecchio Auguste di tutti quei soldi cosa ne abbia fatto.

I tre figli sono diversissimi tra loro. Uno gli è sempre stato accanto nella gestione del ristorante ed era stato fatto socio, anche se mancano le carte per dimostrarlo. Un altro si vergognava del mestiere del padre. E’ l’unico che ha studiato ed è diventato giudice, trasferendosi nei dintorni di Parigi, in quei “palazzi moderni battezzati residenze”, ma qualche soldo gli farebbe molto comodo. Il terzo è una canaglia che vive di espedienti e affari un po’ loschi, un uomo “arrivato a diffidare da tutto” e che arriva in volo da Cannes e senza nemmeno voler vedere il corpo chiede “dove sono i soldi?”. Nel frattempo, la madre, allettata, sembra “immateriale da tanto era diventata magra” e non riconosce nessuno. Le cognate si mettono in mezzo, oppure soffrono in silenzio, giudicate per i loro mestieri del passato, o comportandosi da arroganti arpie alla ricerca degli spiccioli. Come sempre i soldi, barometro morale, sono solo uno strumento che tira fuori i caratteri, migliori e peggiori degli esseri umani. “Penso che il romanziere debba mostrare l’uomo per quello che è, e non come quello della propaganda”, diceva Simenon alla Paris Review. “E non mi riferisco solo alla propaganda politica; mi riferisco al tipo di uomo che ti insegnano al terzo anno di scuola, un uomo che non ha niente a che vedere con l’uomo reale”.

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