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«Il testamento di Lenin spiega l’ambiguità della lotta per il potere», lo storico Canfora presenta il saggio a Bari

«Il testamento di Lenin spiega l’ambiguità della lotta per il potere», lo storico Canfora presenta il saggio a Bari

«Testamento» è una espressione giornalistica, impropria. Quella che Lenin, stanco e malato, redasse a puntate è in realtà una lettera destinata al Congresso del Pcus e da rendere nota solo dopo la sua morte nella quale, a conti fatti, tutti i suoi possibili successori venivano bocciati. A cominciare dai due rivali di sempre, il «rozzo» Stalin e il «non bolscevico» Trockij. Una sostanziale non scelta - divulgata dal New York Times, ma anche dal Corriere della Sera, per mano del giornalista Salvatore Aponte - sulla quale, però, grava il peso di possibili manipolazioni postume. Un giallo in una vicenda piuttosto frastagliata che lo storico Luciano Canfora ripercorre nel recentissimo volume Il testamento di Lenin. Storia di una lettera non spedita (Fuori Scena, pp. 272, euro 18.50), che oggi pomeriggio sarà presentato negli spazi della libreria Feltrinelli di Bari (ore 18) in un dialogo fra l’autore il giornalista Fulvio Colucci.

Professore, iniziamo dalla fine. Cosa ci racconta la vicenda della lettera-testamento di Lenin sul problema della successione al potere?

«Ci spinge a chiederci se al vertice di un movimento politico moderno abbia senso che la successione venga decisa fra pochissimi».

E ha senso?

«La mia risposta è una constatazione: avviene così sempre e dovunque. Nancy Pelosi ha deciso che Biden non poteva essere candidato alla presidenziali Usa dello scorso novembre e il presidente in carica si è fatto da parte. Anche Napolitano congedò Berlusconi in poche ore procedendo alla nomina fulminea di Monti: da privato cittadino a senatore a vita a presidente del Consiglio».

Qual è la morale?

«Ce la spiega Roberto Michels nel volume Sociologia del partito politico del 1912 descrivendo il carattere di élite oligarchica o aristocratica di qualunque formazione politica. Non è una cosa da truci bolscevichi, è la legge ferrea delle oligarchie».

C’è anche da dire che non sempre i leader hanno «occhio» nella scelta…

«L’unico veramente geniale nell’operazione di scelta del successore fu Giulio Cesare. Il caso di Ottaviano è un exploit straordinario. Un genio che individua un altro genio».

E tolto Cesare?

«Un disastro a cominciare da Stalin che individuò Malenkov, fatto fuori poco dopo. Ma potremmo dire lo stesso di Cavour e D’Azeglio, Eisenhower e il “camiciaio” Truman, De Gaulle e il banchiere Pompidou. Anche De Gasperi ebbe problemi di questo genere. Venne fuori il piemontese Pella. A Fanfani, invece, non aveva mai pensato».

E veniamo al testamento di Lenin. Fu manipolato?

«L’autore faticava a lavorare intellettualmente ed era attorniato da una segreteria, pur necessaria, che agiva sotto la supervisione del segretario del partito, cioè Stalin, che aveva appunto il compito di sorvegliare la salute di Lenin e il comportamento delle segretarie, una delle quali era sua moglie».

Il sospetto viene ma ci sono prove?

«La prova è emersa in tempi recenti grazie a uno studioso russo, Buranov, che ha trovato un brandello dell’autografo e l’ha potuto comparare con il testo stampato, notando così delle differenze».

Qual è il punto critico?

«Lenin liquida tutti gli eredi. Ma il punto rimane il “non bolscevismo” di Trockij nell’ambiguità di una espressione che può rimarcare la necessità di continuare a rimproverarlo o, al contrario, l’invito a cessare di farlo».

Di certo Stalin usò bene la lettera, il suo rivale un po’ meno.

«Le accuse di rozzezza furono ribaltate da Stalin addirittura a proprio vantaggio: “È vero, sono brutale con i nemici del popolo”. D’altra parte, Trockij , dotato di un ego straripante, continuava a sostenere che Lenin lo avesse designato successore quando la lettera conteneva in realtà altre accuse, oltre al presunto non bolscevismo: la visione troppo burocratica dei problemi e l’eccessiva fiducia in se stesso».

La verità è che nulla emerge con chiarezza. Alla fine, professore, Lenin avrebbe potuto far meglio, o no?

«Certamente, al punto da decidere di non inoltrarla e renderla nota solo dopo la sua morte. Le perplessità sulla qualità e l’efficacia di quel testo lo hanno tormentato fino all’ultimo».

La Gazzetta del Mezzogiorno

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