L’America del New Yorker. Intervista al direttore Remnick


David Remnick (GettyImages)
La tragedia del ritorno di Trump, gli errori dei democratici (chiamati al campo largo) e i silenzi dei repubblicani. Il Papa americano, il #MeToo, il ruolo degli intellettuali. Parla David Remnick, da 27 anni direttore della più autorevole rivista culturale del mondo
David Remnick dirige il New Yorker dal 1998, e in questi ventisette anni ha visto la sua città d’adozione rinascere dalla ferita mortale dell’11 settembre, dall’impoverimento seguito alla crisi finanziaria del 2008 e dalla desertificazione, improvvisa e devastante, generata dalla pandemia. Con l’eccezione dei 35 anni in cui ha regnato William Shawn, la sua direzione è la più longeva della storia della rivista, che continua a raggiungere un milione di abbonati mantenendo l’eccellenza della qualità, l’imprescindibile accuratezza del fact checking e un tono che riesce a essere nello stesso tempo profondo e ironico: non esiste autore al mondo che non vorrebbe essere pubblicato sul New Yorker. Originario del New Jersey, e vincitore di un premio Pulitzer per Lenin’s Tomb: the last days of the Soviet Empire, Remnick è un uomo gentile e spiritoso, che ama mescolare l’highbrow e il lowbrow, la cultura alta e quella popolare, come anche la politica allo sport: il libro The Bridge: the Life and Rise of Barack Obama non è meno bello né meno appassionato di King of the World: Muhammad Ali and the Rise of an American Hero. E’ un atteggiamento che si riflette nella vita privata: parla con competenza di letteratura, politica e storia, dialoga con confidenza con presidenti e premi Nobel, ma ama suonare la chitarra con gli amici più intimi o mangiare il pastrami e la frittata con lo storione da Barney Greengrass, il locale dell’Upper West Side nel quale pranzavano Isaac Bashevis Singer e Philip Roth. Ancor più degli articoli, i suoi libri hanno spesso per oggetto i punti di riferimento ideali di un paese del quale, a secondo dei casi, celebra o lamenta la gioventù. L’energia invece è una caratteristica dello spirito americano che esalta in ogni momento, anche quando è patrimonio di chi combatte frontalmente, come Donald Trump: considera il suo ritorno una tragedia, e al termine della cosiddetta luna di miele ha scritto un articolo intitolato “Cento giorni di inettitudine”. L’ammiccamento a Márquez è tipico dello spirito del New Yorker: colto, ironico e al confine dello snobismo, elementi che hanno anche caratterizzato le indimenticabili copertine, a cominciare da quella completamente nera con l’ombra delle Torri gemelle pubblicata dopo l’11 settembre. Immagini che hanno la potenza di un editoriale.
Da quando Trump è stato rieletto ha scritto articoli di fuoco alternando l’ironia allo sdegno, ma è consapevole che le sue parole non scalfiscono le certezze dell’elettorato del presidente, che identifica nel New Yorker uno dei simboli dell’ostile elitismo del mondo liberal. Non è uomo da perdersi d’animo, però, ed è convinto con Kennedy che “quanto c’è di buono in questo paese può sconfiggere quanto c’è di cattivo”. Non crediate che questo riferimento al presidente della Camelot americana rappresenti un segno di nostalgia o partigianeria: il fatto che sia un uomo di robuste convinzioni liberal non gli ha impedito di scrivere articoli al vetriolo anche sulla sinistra americana. Insomma, nonostante il rischio di quello che qui in America chiamano entitlement, il complesso di superiorità, la più autorevole rivista culturale del mondo rappresenta una lezione su quello che dovrebbe essere la stampa in termini di profondità, qualità e varietà. Quando mi sente affermare quanto ho appena scritto accenna a un sorriso, poi mi chiede: da dove iniziamo?
Iniziamo dalle differenze principali tra la prima e la seconda presidenza Trump.
Questa volta Trump ha avuto il tempo e l’esperienza per capire di volersi sbarazzare di tutti coloro che possano criticarlo. Non c’è una persona all’interno dell’establishment che gli dica “no” e nulla che lo faccia riflettere o pensare due volte. Nonostante ciò l’Amministrazione è nello stesso tempo caotica e indifferente alla democrazia liberale e al primato delle leggi.
Questo nuovo atteggiamento è evidenziato dalla foto ufficiale, assolutamente inedita per un ritratto della Casa Bianca. Quale è stata la sua reazione? Spero che non se la prenda se dico che la sua feroce determinazione di apparire terrorizzante mi fa sorridere.
E come commenta quella nella quale si è ritratto come Pontefice? Trump non ha mai smesso di usare Twitter e ora Truth per scandalizzare i liberali. Per deridere, attaccare e, come in questo caso, offendere. La verità è che non ha alcun rispetto o deferenza nei confronti di niente o nessuno. Il Papa è morto da pochi giorni e lui sta già proponendo uno scherzo volgare con l’intento di esaltarsi. Tutto ciò è parte del suo personaggio, dominato da una crudeltà indifferente e senza scrupoli: se Dio non voglia fai qualche obiezione, sei immediatamente accusato di essere bigotto e privo del senso dell’umorismo. Ha offeso chiunque in questi anni, perfino i disabili: io non sono affatto contrario a comici che hanno un umorismo aggressivo come Don Rickles e Bill Burr, ma non ho alcun interesse a vedere un comico aggressivo che riveste il ruolo più potente e delicato della Terra. Lo Studio ovale è molte cose, ma non dovrebbe essere un night club.
Nel frattempo la Chiesa cattolica ha eletto il nuovo Papa… E ha scelto un Papa originario di Chicago e con radici creole.
Un Pontefice che ha fatto il missionario e ha scelto il nome del Papa della “Rerum Novarum”, la più importante enciclica sociale. Insomma un Papa con fama di progressista, in questo anomalo rispetto al clero americano. Colpisce che provenga dal ricco occidente, dove evidentemente la Chiesa sente ci sia maggior bisogno di evangelizzazione. Robert Francis Prevost è un Papa americano, con tutto quello che può significare una scelta del genere. Per quanto riguarda il suo magistero ha un legame stretto, e nel senso più profondo, con Papa Francesco. Stiamo vivendo un periodo duro, nel quale è difficile avere speranza, ma forse lui, proprio in questo momento buio, ce ne offre uno spiraglio. Già questo è significativo.
In un’intervista concessa all’Atlantic Trump ha dichiarato che all’epoca del primo mandato non conosceva Washington e si è fidato di persone che non meritavano la sua fiducia. Cosa c’è di vero? Credo che sia assolutamente così, ed è proprio questo aspetto il presupposto per ciò che costituisce la differenza tra i due mandati. In questa occasione ha avuto il tempo di creare un circolo di lealisti Maga, e gran parte di costoro parlano una lingua assolutista. Non esiste dissenso ed è premiata la lealtà di persone chiaramente incompetenti, come Pete Hegseth.
E’ d’accordo sul fatto che la sinistra, non solo negli Stati Uniti, sia sempre più elitista? Io rovescerei la questione: il Partito democratico non può avere successo in futuro senza mettere le preoccupazioni e le esigenze della classe lavoratrice al centro della propria azione politica e delle proprie preoccupazioni. Finora molti politici democratici hanno fallito nell’ascolto del disagio e della povertà aumentata a causa della de-industrializzazione, e, peggio, hanno perso il loro contatto con questo mondo. Trump se ne è reso conto e se ne è avvantaggiato. Ovviamente definire populista un miliardario che sta creando una vera oligarchia rappresenta un’assurdità, e i miei fratelli e sorelle europee capiranno a cosa mi riferisco.
Pochi giorni fa ho intervistato Margo Jefferson, la quale sostiene che la sinistra dovrebbe avere il “linguaggio chiaro e coraggioso” di Alexandria Ocasio-Cortez e di Bernie Sanders: lei è d’accordo o pensa invece che la radicalizzazione possa portare a una nuova sconfitta? Ci sono molte cose che ammiro di Alexandria Ocasio-Cortez e Bernie Sanders, a cominciare dalla fiera energia con cui fanno opposizione, ma non penso che la loro proposta politica debba rappresentare il cuore del Partito democratico né la sua voce principale. Ritengo che i sondaggi e la percezione di cosa sia l’America al di fuori di certi ambienti ci dicano che si tratterebbe di una ricetta sicura per la sconfitta. Il partito deve diventare un grande accampamento, inclusivo di idee e di diverse appartenenze culturali. Ammiro sinceramente entrambi per il coraggio e la chiarezza delle loro idee, ma dobbiamo fare i conti con il fatto che la maggioranza di questo paese non è di sinistra.
Secondo lei da dove dovrebbe ripartire la sinistra? Forse lo dico un po’ troppo tardi nel corso di questa conversazione, ma io sono un giornalista, non un attivista. Ma dal momento che me lo chiede… Innanzitutto c’è da domandarsi cosa si intende per “sinistra”: negli Stati Uniti rappresenta qualcosa di molto diverso dall’Italia, anche da quella odierna, ma accantoniamo questo aspetto. Ritengo che oggi sia molto importante che ogni tipo di persona – di sinistra, centrosinistra, indipendente, repubblicano dotato di coscienza – si svegli e si renda conto della gravità di quanto sta avvenendo. L’Amministrazione che ci sta governando è antidemocratica, autoritaria e ha persino elementi oligarchici: se continua a non essere contrastata, realizzerà un progetto che avrà delle conseguenze enormi in tutto il mondo. Con poche eccezioni finora il paese è rimasto passivo e i danni possono diventare irrimediabili.
Non crede che sia giunto il momento di un radicale cambio della guardia, tra i democratici? Se parliamo in termini generazionali, accadrà presto: Nancy Pelosi è scomparsa dalla circolazione, Chuck Schumer è sfidato al suo interno. Questo cambio della guardia sta già avvenendo.
Un testo di riferimento della sinistra americana oggi è 'Abundance' di Ezra Klein e Derek Thompson. Cosa ne pensa?
Il testo propone tesi non del tutto nuove, ma sono ben argomentate e sta generando interesse. I due autori hanno certamente ragione quando affermano che troppo spesso l’eccesso di regole non ha consentito che alcune cose essenziali vedessero la luce, come ad esempio un decente sistema ferroviario o la realizzazione di piani urbanistici. La mia opinione è che il libro rappresenti un contributo valido: è nella natura più autentica del liberalismo il mettersi in discussione ed evolversi, ma nello stesso tempo è necessaria la forza delle proprie convinzioni e non il cedimento a queste forme di bullismo e politiche illiberali che stiamo vedendo negli Stati Uniti, in Italia e in molti altri paesi.
Nella possibile rinascita della sinistra è quindi un libro di analisi sociologica a indicare una possibile strada…
Diciamo anche un libro. Quello che scrivono Ezra Klein e Derek Thompson può rappresentare un elemento delle tesi e delle politiche democratiche, anche quando l’attenzione è volta a temi più tradizionali quali la compassione e la dignità, componenti fondamentali di una democrazia più sociale.
Lei ha fatto riferimento ai “repubblicani con una coscienza”. Che ruolo possono avere oggi? E la loro voce è ascoltata?
Conservatori che combattono Trump? Non ce ne sono molti di cui io ascolti la voce, con l’eccezione di alcuni politici anziani che oggi non hanno molta rilevanza (Mi sto riferendo a te, Mitch McConnell!), La senatrice dell’Alaska Lisa Murkowski afferma che sono tutti “spaventati” di sfidare Trump, e ritengo che lo intenda alla lettera. Gli apostati si trovano ad affrontare non soltanto l’opposizione politica e la perdita del loro prezioso seggio, ma anche vere e proprie minacce. Intendo autentiche minacce fisiche: questo è il clima di paura che stiamo vivendo.
Come è possibile che il Partito repubblicano, con una storia gloriosa a cominciare da Abraham Lincoln, sia oggi totalmente nelle mani di Donald Trump?
La politica indipendente dei repubblicani che Trump rappresenta – illiberalismo, bigottismo, isolazionismo e altro – non è una novità nella storia americana. E’ stata presente nel Diciannovesimo secolo e si è opposta all’abolizione della schiavitù e poi alla ricostruzione del paese. Nel secolo scorso l’abbiamo vista con chiarezza con Charles Lindbergh e il movimento neofascista America First. Nel Partito repubblicano dei nostri giorni ciò che è particolarmente triste è l’uniformità, la cultura di fedeltà assoluta e l’obbedienza.
Definirebbe Trump un repubblicano?
Al momento è Trump a definire chi sia un repubblicano. La sua ideologia e i suoi impulsi. Il movimento Maga è il partito, ogni giorno di più. Come dicevo prima, sfidarlo significa perdere il posto a tavola e pochi hanno il coraggio di farlo.
A mio parere stiamo vivendo il più grande tradimento di cosa è l’America dai tempi del maccartismo.
Sì, purtroppo è proprio così. Io non sono mai stato un fan di Reagan e del reaganismo, ma quanto sta accadendo oggi è totalmente differente e infinitamente più dannoso per i princìpi essenziali a cui aspira questa nazione e per quanto deve stare a cuore a uno spirito democratico, a cominciare dal rispetto delle regole e della giustizia.
Come si spiega che Trump abbia avuto successo nell’elettorato femminile nonostante le violente e volgari affermazioni misogine?
Potrei fare una domanda analoga: come si spiega che nel 2024 Trump abbia avuto la maggioranza tra gli immigrati di lingua spagnola e tra i neri? In parte si deve a illusori interessi economici. E in parte si deve anche al colossale errore dei democratici di lasciare in vita troppo a lungo la candidatura di Joe Biden, sebbene fosse chiaro che non sarebbe stato nelle condizioni di fare il suo lavoro o di convincere gli elettori che sarebbe stato in grado di farlo sino al 2028. Il Partito democratico non può ritenere di essere il partito illuminato e in virtù di questo motivo avere comunque il voto degli elettori.
Trump è arrivato ad affermare che non gli succederebbe nulla neanche se uccidesse qualcuno sulla Quinta strada. Come è possibile? La gente sa chi è Trump, nessuno è cieco di fronte alle sue qualità. Sa che mente continuamente, che è un intollerante e tutto il resto. Non nasconde nulla. Potrebbe chiedersi ragionevolmente perché un cristiano evangelico lo considera un campione sebbene sia platealmente irreligioso, e, peggio, immorale nella sua vita? La risposta è che la gente lo considera un campione per i propri altri interessi, in particolare quelli economici. Sono disposti ad accollarsi il male e questo è un patto con il diavolo. Tuttavia, dopo la recente catastrofe economica, che con ogni probabilità porterà a una recessione, l’apprezzamento da parte dell’elettorato è iniziato a scendere. Voglio aggiungere che sono in molti ad auspicare un controllo molto più severo del confine meridionale, ma non per questo sono anche a favore di deportazioni in piena notte di centinaia di persone, compresi bambini ammalati di cancro. Le maggiori restrizioni per quanto riguarda i confini non implicano una politica nazionale di crudeltà in cooperazione con il dittatore di El Salvador Nayib Bukele.
Io sono dell’idea che Trump sia una reazione brutale e volgare alla degenerazione della cancel culture, la correttezza politica e il woke. Non c’è dubbio che quello che definisce la cultura woke abbia avuto ripetutamente degli eccessi. Ma penso che sia anche uno spauracchio usato da Trump. Solo per fare un esempio, vogliamo veramente tornare al mondo precedente al movimento #MeToo, quando le molestie erano qualcosa di comune e accettato?
Come mai il fatto che Trump sia stato condannato sembra del tutto irrilevante per i suoi elettori? Margo Jefferson sostiene che il rapporto tra lui e i suoi fan sia simile a quello di una setta. Trump ha subito due impeachment, è stato condannato per dei crimini e messo sotto accusa per molti altri reati prima che i processi scomparissero. E per favore non dimentichiamo che ha fomentato l’insurrezione a Capitol Hill, definendola “un giorno d’amore”: la volontà di giustificare tutto ciò sarà considerata, nella storia, molto più di una disgrazia, anche se alcune delle accuse erano deboli. E non stiamo neanche parlando della corruzione finanziaria, come quella delle cripto-valute.
Richard Nixon fu costretto a dimettersi per il Watergate, che al confronto sembra uno scandalo di rilevanza minore. Oggi sembra che nessuno scandalo possa mettere in crisi Trump… Nixon fu costretto a dimettersi quando i leader del Partito repubblicano andarono a informarlo che stava per iniziare un procedimento di impeachment che con ogni probabilità avrebbe portato una sua condanna in Senato. In un angolo della coscienza di Richard Nixon c’era ancora la vergogna, Trump invece non la conosce e ritiene di non avere alcuna colpa.
Come interpreta la definizione di “parassita” che Vance ha dato dell’Europa? Come la saggezza di chi non ne ha. E’ vero che per alcuni versi la prosperità europea è stata notevolmente aiutata e anche amplificata grazie alle garanzie date dalla sicurezza e dal potere americano. Ma una cosa è spingere l’Europa ad aumentare il proprio budget per la difesa e il proprio contributo alla Nato, un’altra è minacciare la dissoluzione della Nato o tentare di umiliare e prendere in giro i leader europei. Possiamo vedere chiaramente l’effetto che ha avuto questa “politica estera” in Canada, dove Trump è riuscito a unire un paese che lui voleva far diventare il 51esimo stato. Come si è visto è stato un regalo al Partito liberale canadese.
Il nuovo premier canadese Mark Carney è un moderato con importanti esperienze finanziarie: dopo la sconfitta dei democratici in molti hanno dichiarato che un altro candidato sarebbe stato più efficace di Kamala Harris. Credo che qualunque altro candidato avrebbe incontrato grandi difficoltà con così poco tempo: Biden avrebbe dovuto terminare il primo mandato, celebrare i propri risultati e accettare la sua età. Sarebbe stato apprezzato e avrebbe dato al partito un tempo adeguato per preparare un’alternativa. La storia avrebbe potuto prendere un’altra direzione, in fondo Trump non ha vinto con un enorme mandato, ma con un margine dell’1,5 per cento del voto popolare.
C’è qualcosa di cui la sinistra dovrebbe pentirsi o di cui è responsabile rispetto al successo di Trump? E’ una questione molto importante e partirei da due punti fissi: 1) come ho già detto, Biden non si sarebbe dovuto ricandidare. 2) Nel 1968, quando Robert Kennedy fu assassinato mentre stava per avere la nomination, il Partito democratico era il partito della classe operaia e di quella media, dei neri, dei latini, di altri gruppi e anche di elettori ben istruiti delle due coste. Era un accampamento molto più grande di quello che esiste ora. Oggi i democratici non possono essere semplicemente il partito delle persone ben istruite delle due coste o delle grandi città. E questo richiede un duro lavoro politico e intellettuale, oltre a un maggiore senso di tolleranza su molte questioni e una discussione non esclusiva, ma molto più aperta.
La maggioranza della stampa è ostile a Trump, ma questo non sembra rilevante: come lo spiega? I media non sono più quelli ai quali siamo stati abituati per molto tempo, sono cambiati radicalmente grazie a nuove realtà quali i social. Non c’è dubbio che il New York Times sia potente, all’interno di un ecosistema infinitamente più vario, composto da piante salutari, altre che rischiano di morire e anche molte piante velenose. L’ascesa di Trump coincide però con quella dei nuovi media e lui è stato abilissimo a utilizzarli: Fox News rappresenta soltanto l’inizio di tutto ciò, i media a disposizione di Trump vanno dalla trasmissione radio di Joe Rogan ai podcast a Newsmax e molti altri.
Margo Jefferson mi ha detto che non ha alcuna stima per Trump, ma non può non riconoscergli il carisma. Oltre al carisma e all’energia del politico, io gli riconosco il talento del demagogo. Ma anch’io non ce la faccio a provare alcuna forma di ammirazione per una persona che abbonda in malvagità, cinismo, crudeltà e assoluto disprezzo per molti valori e istituzioni – come ad esempio la stampa libera – che sono preziosi e fragili.
C’è qualche sua scelta politica per cui gli riconosce dei meriti? Nonostante il modo miserabile e disastroso con cui ha gestito la pandemia, ha fatto quello che qualunque altra persona sensibile avrebbe fatto, accelerando la ricerca dei vaccini.
Esiste un libro che può far capire cosa sta succedendo oggi in America? Il complotto contro l’America di Philip Roth può essere certamente un buon viatico.
Come deve comportarsi un intellettuale oggi in America? Parlare e agire con coraggio e incessantemente. Sono in disaccordo con Noam Chomsky in molte cose, ma vale la pena rileggere il suo saggio La responsabilità degli intellettuali.
E’ d’accordo che solo un disastro economico può far cadere Trump? E’ difficile pensare che Trump non rimanga alla Casa Bianca per quattro anni: i presidenti non subiscono un impeachment per una recessione, e lui è stato eletto democraticamente. La prima opportunità di limitare il suo potere saranno le elezioni di midterm del 2026.
Ritiene che l’America rischi di diventare un paese autoritario? Sì, in parte lo temo. L’ascesa dell’autoritarismo non avviene necessariamente con un terremoto o qualche calamità, basta guardare l’Ungheria. E’ necessario opporsi con coraggio, forza e fiducia nella legge.
Voglio chiudere con la domanda che faccio a tutti i miei interlocutori: come spiegherebbe Trump a un bambino di dieci anni? Cerco di non spaventare mai i bambini quando vanno a letto.
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