Né guerre né crisi economiche. La decadenza dell’occidente è innanzitutto emotiva. Un libro


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Il brillante saggio della sociologa Eva Illouz espone con chiarezza quella forma di tristezza diffusa e fallimento individuale che attraversa fortemente gli abitanti di questa parte di mondo. Nonostante tutti i dati economici siano sostanzialmente favorevoli
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L’emozione nell’epoca moderna è considerata una formidabile leva produttiva, un sentimento necessario per aspirare, ambire e come spesso si usa dire, per realizzare i propri sogni. L’emozione è alla base dunque di quella capacità produttiva tutta occidentale che ha come fine il raggiungimento del benessere. Tuttavia, negli ultimi anni si sta assistendo pericolosamente a un’inversione di tendenza: l’emozione più diffusa non è più una forma di speranza entusiastica magari ingenua, ma sinceramente inseguita, bensì una delusione profonda. Una depressione pericolosa che colpisce trasversalmente tutti i ceti sociali.
Nonostante tutti i dati economici siano sostanzialmente favorevoli e nonostante una ricchezza più diffusa, sopratutto in quelle società dove il vituperato neoliberismo (come viene definito dai suoi critici) ha preso reale forma, la sensazione di un fallimento individuale attraversa fortemente i suoi abitanti. Un fallimento ideale, ma che diviene rapidamente sostanziale avvinghiando in un movimento centrifugo da cui diviene sempre più difficile riemergere. Eva Illouz prova così nel suo ultimo brillante, colto e convincente saggio, "Modernità esplosiva" (Einaudi, per la traduzione di Valentina Palombi) a esporre in un quadro sufficientemente ampio e molto chiaro una dinamica che sta attraversando l’occidente e che facilmente prende il nome di decadenza. Una decadenza dunque emotiva prima ancora che d’altro tipo, una forma di tristezza diffusa che come indicano i dati statistici vedono nel 2022 quasi l’ottanta per cento degli statunitensi vivere con poca o nessuna soddisfazione il proprio lavoro (al di là della remunerazione economica).
L’impressione è così che quello che la modernità ha richiesto dall’Ottocento in poi, ovvero una fiducia nel futuro e una forte convinzione nei propri mezzi, si sia tramutato in una forma di cappio che stringe il collo fino all’asfissia alle persone ora non più legate da un forte fattore (e sentimento) comunitario, ma quali individui singolarmente chiamati a intraprendere e a inseguire successo e soddisfazione. Uno schema che non vede più una società coesa e accogliente, magari caratterizzata da limiti e impedimenti che possono rendere difficoltoso inseguire le proprie ambizioni, ma un campo aperto dentro al quale la responsabilità per ogni fallimento o peggio ancora per ogni differenza divengono solo a carico del singolo individuo.
Una performance estrema i cui parametri di valutazione s’impongono come rigidi e assoluti e al tempo stesso rendono gli obiettivi irraggiungibili in una logica di competizione infinita. Il sentimento così più diffuso secondo Illouz, sociologa presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, diviene quello della nostalgia e dello spaiamento frutto anche di una società – quella occidentale – che ha negli ultimi anni tradito una fluidità che aveva come sua principale espressione una virtuosa globalizzazione e che ha favorito incontri e scambi mai come prima. In questo rinchiudersi e serrare le fila che si palesa a vari livelli nella società si percepisce così un pericoloso avvitamento che se in parte sconfessa un individualismo emotivo estremamente aggressivo dall’altra parte ripropone un’idea di società troppo simile a uno stato nazione da fin de siècle.
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