Fumi di Parigi. La sigaretta bersaglio perfetto della censura perbenista


Jane Birkin e Serge Gainsbourg a Parigi nel ’76 (foto Getty)
In Francia è appena entrata in vigore una legge che vieta di accendersi una sigaretta in tutti gli spazi all’aperto in cui possono esserci minori. Da accessorio identitario dell’intellò a male assoluto da combattere con i divieti
Nelle librerie di Saint-Germain-des-Prés si vendono cartoline con il volto di Jean-Paul Sartre, di Albert Camus, di Roland Barthes, di Serge Gainsbourg. Sono icone della fertile stagione artistica e intellettuale che ha permesso a Parigi di essere ancora oggi la riconosciuta capitale del pensiero occidentale contemporaneo. Sogno degli studenti di filosofia della provincia italiana, che si immaginano, sigaretta tra le labbra, a uscire dalle aule del Collège de France con un tascabile sotto al braccio. Anche perché, tra le dita o tra le labbra, i Sartre, i Camus, i Barthes e i Gainsbourg, ma anche le Bardot, hanno una sigaretta, o un sigaro, o una pipa. Sono stati loro a rendere quei café – il Deux Magots, il Flore – dove ora c’è la coda per farsi le foto da postare su Instagram, uno dei luoghi simboli della città, e dello stile di vita europeo. L’esistenzialismo non esiste senza il caffè, o la birretta, consumati en terrasse, guardando passare la gente, così come non esisterebbe senza il fumo. Le sigarette sono state l’accessorio determinante del Novecento intellettuale parigino. Quasi come la Tour Eiffel o il baschetto da “Emily in Paris”, una Gauloises accesa è icona della ville lumière. Se Londra ha la pinta di birra senza schiuma, la Baviera il bretzel, Central Park l’hot dog, Parigi ha la sigaretta. La foto di un pacchetto morbido di Gitanes senza filtro appoggiato su un tavolino tondo di marmo coi piedi di ghisa, vicino a una mezza Perrier o a una tazzina di caffè, urla subito Parigi. E’ più identitaria di un’immagine del Louvre o di un bateau mouche sulla Senna o della tomba di Napoleone. Nel 1988, pochi anni prima di morire, il cantautore Gainsbourg venne invitato in televisione per esser celebrato da un coro di bambini, Les Petits Chanteurs d’Asnières. I piccoli hanno cantato “Je suis venu te dire que je m’en vais” cambiandola in “On est venu te dire qu’on t’aime bien” (siamo venuti a dirti che ti vogliamo bene). I bimbi sono tutti conciati come lui: occhiali da sole, capelli sale e pepe, giacca nera sui jeans, barba di un giorno, bicchiere di whiskey (finto, si spera) in una mano e, ovviamente una sigaretta (sempre finta) tra le dita dell’altra. Gainsbourg si è messo a piangere, fumando e ascoltandoli. Cosa sarebbe Gainsbourg, ormai glorificato al pari dei più grandi poeti della repubblica, senza le sigarette? Cosa resterà della Francia dopo il nuovo decreto antifumo?
Tra le dita o tra le labbra. I Sartre, i Camus, i Barthes e i Gainsbourg, ma anche le Bardot, hanno sempre una sigaretta, un sigaro o una pipa
Perché da domenica scorsa in Francia è entrata in vigore una legge che vieta di accendersi una sigaretta nelle spiagge e nei parchi pubblici, alle fermate dell’autobus, davanti alle biblioteche, alle scuole e alle piscine. Divieto immediato in tutti gli spazi all’aperto in cui possono esserci dei minori. Pena una multa che va dai 135 ai 700 euro. “Il tabacco deve scomparire dai luoghi in cui ci sono I bambini”, ha detto la ministra della salute e della famiglia, Catherine Vautrin. “I parchi, le spiagge, le scuole, sono luoghi in cui giocare, imparare, respirare. Non sono luoghi dove fumare”. L’obiettivo della ministra macronista, che proviene dalla destra gollista di Chirac, è creare una “generazione libera dal tabacco” entro il 2032.
L’idea di un generazione smoke free è stata paventata da vari capi di stato e di governo, dalla Nuova Zelanda all’Inghilterra. Nella Milano capitale europea che non vuole essere da meno, il sindaco Beppe Sala si è intestato la battaglia dichiarando che auspica strade senza fumatori entro il 2030: “C’è il rischio che si chiuda la questione inquinamento a traffico e riscaldamento, ma c’è dell’altro”. Trovata la soluzione al riscaldamento globale: smettere di vendere le Marlboro. Proibizionismo mascherato dal modaiolo ambientalismo generico. Se si fa per l’ambiente – anche senza dati o spiegazioni – è tutto giustificato alle orecchie dei follower, un po’ come i calzini arcobaleno di palazzo Marino. E’ facile colpire i fumatori, più delle lobby dei tassisti o dei produttori di auto a benzina, perché i fumatori non hanno un club. Ma se si continua così nasceranno, come ai tempi del proibizionismo a stelle e strisce – che arricchì la famiglia Kennedy e Al Capone – locali sotterranei nascosti, speak easy nei vialetti bui, dove potersi fumare in pace un pacchetto di Ms.
Ci sono state le orribili fotografie di menomati e moribondi e uomini nudi sofferenti per la disfunzione erettile che hanno distrutto la romanticizzazione dell’oggetto pacchetto. In alcune nazioni, come la Francia, anche il font è generico e lo sfondo nero, per togliere fedeltà al marchio. E poi continui aumenti di prezzo che – visti da una prospettiva di sinistra – rendono la sigaretta un oggetto elitario, sempre più di lusso, e privano l’operaio in pausa, la cameriera che stacca dal turno, il giovane artista squattrinato di quel momento di relax guadagnato.
Si va ora incontro a una sorta di damnatio memoriae della Camel accesa, per eliminarne l’immagine e la storia, come si è fatto con il volto del Doge Marino Faliero dalla sala del Maggior consiglio di palazzo Ducale. Una vera e propria guerra non solo contro l’oggetto sigaretta, ma anche contro la sua rappresentazione visiva. Di recente proprio a Parigi sono stati tolti dalla metropolitana i poster della mega mostra monografica che celebra la carriera del pittore inglese David Hockney. Perché? Perché nel quadro scelto per pubblicizzare la grande exhibition della fondazione Louis Vuitton era stato scelto un quadro in cui si vede Hockney che fuma. “Una totale pazzia”, ha commentato lui, che a 87 anni difende il suo vizio come parte integrante della sua pratica artistica. Vent’anni fa si era presentato con un cartello – “La morte vi aspetta anche se non fumate” – al congresso laburista in cui si discutevano le leggi sui divieti. “Ho iniziato a 16 anni”, dice l’artista, e ne vede gli effetti calmanti fin da allora. Non è l’unico pensatore, pittore, scrittore (o scrittrice). Si pensi a Fran Lebowitz, intellettuale americana su cui Scorsese ha realizzato un documentario, che dice: “Amo fumare. Fumare è divertente. Fumare è cool. Fumare è, per quanto mi riguarda, il motivo principale di essere adulti”. O a Sigmund Freud, che nutriva la sua mente con decine di sigari al giorno, convinto che per le sue idee e la sua lucidità mentale dovesse ringraziare il fumo (certo, gli venne anche un cancro alla bocca, effetti collaterali). Quando si entrava nel suo studio che ospitava le riunioni con gli allievi, alcuni di loro hanno raccontato che sembrava di entrare in una stanza piena di nebbia. Si pensi poi a Umberto Eco, che aveva praticamente smesso di andare al cinema da quando non si poteva più fumare in sala.
Oggi vige una vera e propria censura, e quindi ci si chiede se metteranno degli adesivi sopra le pipe di Van Gogh o di Magritte (anche se quella, in fondo, non è una pipa), o sopra il sigaro del Mallarmé rilassato ritratto da Manet. Ci si chiede se con l’intelligenza artificiale modificheranno le scene dei film in cui si tiene una sigaretta tra le labbra, da qualsiasi scena di Hitchcock al Clint Eastwood col poncho di Sergio Leone, passando per i “Blues Brothers”, “Casablanca” e “Persona”, per la ricerca di sigarette di Gassman, che muove tutto “Il sorpasso”. “Proprio quando pensi che le cose non possano andare peggio di così, finisci le sigarette”, dice il frustrato personaggio di Cate Blanchett in “Carol”. Se quindi Hockney viene cancellato dalla metro, anche le cartoline delle librerie con i miti francesi dovranno sparire? Si potrà insegnare Roland Barthes anche se fumava? Come ci insegnano le censure di oggi, le colpe sono sempre retroattive, come una black-face in un film degli anni Trenta, o gli stereotipi africani in un Tintin o la grassofobia in un libro di Roald Dahl.
E così la lotta al fumo diventa una battaglia civile, addirittura un’arma di distrazione da cose ben più fastidiose per il mondo.
Achille Occhetto, ultimo segretario del partito comunista italiano, fa notizia quando viene beccato a spipazzare in tv sulla barca di Chiambretti sul Tevere. “Finché vivo voglio fumare la mia pipa”, risponde il compagno. Già nel 2009 Chiambretti era stato denunciato dal Codacons alla Guardia di Finanza per aver fatto fumare Gianfranco Funari in una puntata di “Markette”. Su di lui era stata riconosciuta una “probabile parziale incapacità di intendere determinata dalla dipendenza dalla nicotina”, mentre non erano stati risparmiati Chiambretti e il direttore di La7. Quando nel 2005 entrarono in vigore le leggi che vietavano il fumo nei locali in Italia, quelli del Codacons organizzarono una cena per festeggiare, e se ne andarono in giro alla mezzanotte a spegnere con mini estintori e pistole d’acqua i mozziconi accesi dentro bar e discoteche.
La prima legge anti fumo risale al Terzo Reich. Con il piano Marshall gli americani scaricarono in Germania tonnellate di sigarette, simbolo di libertà
Forse si fa bene a ricordare – senza volersi spingere a paragoni esagerati – quella che è considerata la prima legge anti fumo su scala nazionale, cioè quella emanata dal Terzo Reich. Hitler vedeva il fumo come la vendetta dei selvaggi contro l’uomo bianco per avergli fatto conoscere l’alcol – altra cosa che non piaceva al dittatore, come ben ci ricorda il paragone con il fumatore bevitore Churchill. Hitler detestava il fatto che la sua fidanzata Eva Braun fumasse, e cercava in ogni modo di convincere Göring a smettere, almeno in pubblico, per non dare il cattivo esempio al popolo. Per procreare come si deve, gli ariani non dovevano avere il vizio. Alcune pubblicazioni naziste sostenevano che fossero gli ebrei capitalisti a corrompere l’Europa col tabacco. Con il piano Marshall gli americani scaricarono poi migliaia di tonnellate di sigarette in Germania, e la sigaretta diventò anche uno dei simboli della libertà dopo il regime. Mentre in America per i decenni a venire ci sarebbero stati medici che promuovevano il fumo nelle pubblicità, i medici nazisti negli anni 40 avevano già legato l’abitudine al cancro, facendo felice Hitler. Si dice che Churchill avesse detto: “Se due persone fumano sotto il cartello ‘vietato fumare’, gli fai la multa. Se venti persone fumano sotto il cartello ‘vietato fumare’, chiedi loro di spostarsi. Se duecento persone fumano sotto il cartello ‘vietato fumare’, togli il cartello”. Ma oggi non c’è spazio per il pensiero liberale applicato ai vizi e al godimento.
Ci sono poi due elementi collaterali a questa progressiva demonizzazione delle sigarette di carta e tabacco nel ventunesimo secolo. Il primo riguarda la nascita della sigaretta elettronica e di tutte le sue orribili e fruttate varianti. Oggetti che sembrano usciti da un filmaccio steampunk di serie B, da un vecchio episodio dei Power Rangers, roba che potrebbe esser nata dall’immaginario di qualche fumettista nerd negli anni 80 per accessoriare un cacciatore di taglie malevolo. Ne esistono di mille tipi, come i Pokémon, ognuna con una sua evoluzione, piccoli narghilè portatili o minuscoli puzzolenti barbecue, oggetti sostitutivi di qualcosa di non migliorabile, come la ruota. Elettroniche protesi della poesia, chiavette Usb del vizio, ricaricabili come un’iPhone e altrettanto fastidiose. E poi l’eliminazione della cenere, elemento sacro che ricorda la mortalità dell’uomo. Così si perde del tutto il rapporto tra essere umano e natura, mentre il profumo del tabacco viene sostituito da quello artificiale che sembra letame o zucchero filato. Per qualche motivo, forse legato all’amore per la tecnica dei burocrati diventati politici, le sigarette elettroniche spesso non rientrano nei divieti, come nel caso di Parigi. L’altro elemento, anche questo parallelo all’incriminazione delle sigarette, è la graduale liberalizzazione della marijuana. A New York se fumi una Winston vieni guardato come un eroinomane, se giri con spinelli grossi come banane su Park Avenue va tutto bene. Zaffate di erba arrivano mentre si passeggia per Brooklyn o Manhattan, mentre nei dehors ci sono i cartelli “no smoking” e un pacchetto costa quindici dollari. “A volte il fumo è meglio dell’arrosto”, cantava Freak Antoni.
Mentre si demonizza la sigaretta, si diffondono le sue orribili e fruttate varianti elettroniche. E la marijuana è stata del tutto sdoganata
La sigaretta così è diventata il simbolo di ogni male. E’ il capro espiatorio di ogni policy sulla salute e sull’ambiente. Oggetto perfetto da colpire, in mancanza di una cultura difensiva come quella che unisce i fattoni che si fanno di Thc e parlano solo di quello, e che si mettono magliette celebrando il loro vizio e conoscono tutti i tipi di indica e sativa. La sigaretta è insomma il bersaglio perfetto. Vestigia di un tempo antico, del momento di pausa del gentleman tanto quanto del minatore, della prostituta e della studentessa, della grande diva e del gangster. Nell’epoca del decoro e della pulizia la cicca e la cenere sono detriti inaccettabili. La big tobacco un po’ ha lasciato perdere la sua evangelizzazione occidentale, perché si è concentrata su altri continenti con leggi meno restrittive, mentre arrivano ovunque i sacchettini svedesi da mettere sotto le gengive. Nascosti, senza odore, perfetti per l’epoca che snobba la bellezza della decadenza.
Parigi brucia, per il caldo. Brucia Notre-Dame e si chiude la torre Eiffel per la canicule. Ma le sigarette bruciano sempre meno per gli show esecutivi dei governi senza priorità se non la propria patetica sopravvivenza, distruggendo quell’immagine della vita da bar che ha reso la capitale francese, per usare le parole di Baudelaire, piena di quel “meraviglioso che ci avvolge e ci bagna come l’atmosfera”.
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