Il futuro è in un archivio


La rivista della Biennale dedica il suo secondo numero “La forma del caos” al tema dell’archivio (foto Andrea Avezzù, courtesy Biennale)
Da quello sterminato della Biennale di Venezia all’Istituto Luce, alle Teche Rai. Viaggio nel bel caos della memoria
Che cos’è un archivio? E perché raccogliere migliaia di documenti, immagini analogiche e digitali, nastri magnetici, cd, dvd, blu-ray, libri e oggetti non meglio identificati dimenticati dal tempo? Che farsene di tutta questa memoria antica, spesso polverosa, in alcuni casi di incerta provenienza che va addirittura maneggiata con guanti bianchi per non rovinarla? I bravi archivisti esplorano questi mondi sommersi, dal greco archeion che diventa il latino archivum, per ordinarli, riportarli in vita e consegnarli ai posteri, vere e proprie arche della memoria dove il passato è tenuto in ordine per permettere al futuro di costruire nuovi mondi.
Una di queste arche è la rivista trimestrale della Biennale di Venezia, lanciata nel 1950 e attiva fino al 1971 con 68 numeri pubblicati, che oggi rinasce “con lo stesso spirito e natura che la contraddistingueva sin dalla prima edizione”, racconta Debora Rossi, direttrice editoriale della rivista e responsabile dell’Archivio storico delle Arti contemporanee della Biennale di Venezia – Asac, “retta da una parola guida, ricerca, termine che ricorre nella stessa legge istitutiva della Biennale e che ha come settori d’attività le arti visive, l’architettura, la danza, la musica, il teatro, il cinema e tutto quanto rappresenta spazio di riflessione e discussione intorno all’oggi, sempre con la prospettiva di meglio comprendere e immaginare il futuro”. Un archivio vivo, come la città che lo ospita, in cui oggi come un tempo, concluse le mostre e i festival, tutte le attività si trasformano in memoria e divengono nuova materia di ricerca. Nato con la prima edizione dell’Esposizione internazionale d’Arte nel 1895, l’Asac si consolida nel 1976 e raccoglie un’enorme quantità di materiali eterogenei: il Fondo storico con documenti, corrispondenze e contratti, la Fonoteca con oltre 27.000 lastre, 40.000 negativi, 800.000 positivi, 150.000 diapositive e 120.000 immagini digitali realizzate dagli anni duemila, la collezione di manifesti con oltre 4.700 esemplari, la raccolta documentaria e la Rassegna stampa, il Fondo artistico con oltre 4.000 opere e la Biblioteca con oltre 170.000 volumi e 3.000 periodici, la Mediateca, la Cineteca, la raccolta di partiture e spartiti musicali.
La rivista trimestrale della Biennale, da poco rinata, si dedica tra gli altri all’archivio di Ingmar Bergman a Fårö e a quello di William Basinski
Il primo numero della nuova rivista, “Diluvi prossimi venturi”, si apre con il verso del compagno Majakovskij “Il sole ha essiccato col caldo / la notte del diluvio” e continua, tra le altre suggestioni, con le infinite passeggiate tra le calli veneziane dello scrittore turco Orhan Pamuk. Nel secondo numero, “La forma del caos”, si schiudono gli archivi che Ingmar Bergman ha costruito nel 1960 a Fårö, la sua isoletta lunare sperduta nel Mar Baltico, e quelli di vecchi nastri che il compositore americano William Basinski riusa per costruire un labirinto sonoro di emozioni e ricordi. E ancora, tra gli altri, il senso degli archivi secondo la coreografa Carolyn Carlson, l’architetto Carlo Ratti, gli scrittori Claudio Magris e Javier Cercas, i fotografi Francesco Zizola e Paolo Pellegrin, l’architetta e scienziata marocchina Aziza Chaouni: artisti, scienziati e pensatori tutti racchiusi in questa rivista-teca, magnificamente impaginata, che dà voce allo sterminato archivio della Biennale.
Qualcuno ha definito Venezia come luogo dove darsi appuntamento, perché questa capitale d’oriente è il posto dove tutti i colori e i popoli hanno possibilità di avere un domicilio, una sorta di Aleph borgesiano, e questa rivista è la mappa migliore per esplorarla.
Dalla biblioteca di Alessandria alla “Pinacoteca” di Filostrato Maggiore, retore del II secolo d. C. che racconta di un intero museo immaginario
Gli scrigni dove conservare il sapere esistono dall’antica Grecia, dalla biblioteca di Alessandria contenente più di 700.000 volumen, alla “Pinacoteca” di Filostrato Maggiore, retore del II secolo d. C. che racconta a un suo giovane discepolo di un intero museo immaginario. Fino ad arrivare all’odierno archivio dell’Istituto Luce, fondato nel 1924 come strumento di propaganda del regime, divenuto poi un’importante istituzione pubblica per la diffusione cinematografica a scopo didattico e informativo. O, ancora di più, alle Teche Rai, seconde solo alla Bbc, nate appena nel 1995 ma che contengono tutto quello che è stato trasmesso dalla tv e dalla radio italiana. In pratica la storia del Novecento e gli scampoli del nuovo millennio.
Come cantava il poeta Franco Battiato, “Venezia mi ricorda istintivamente Istanbul, stessi palazzi addosso al mare, rossi tramonti che si perdono nel nulla”, ma il mio viaggio nel cuore degli archivi prosegue verso Milano dove incontro Francesca Molteni, autrice di documentari di architettura e design, che proprio ai contenitori di storie per il futuro ha dedicato molti suoi lavori: “Un film su un archivio è una sfida quasi impossibile”, mi dice la regista che nel 2018 ha realizzato “NEWMUSEUM(S). Storie di archivi e musei d’impresa” e ha seguito con le telecamere le famose casse rosse di Renzo Piano per il bel documentario “Il potere dell’archivio”: arrivate da Atene al porto di Genova, le grosse scatole colorate vengono scaricate da un tir e contengono progetti, bozzetti, disegni e plastici di celebri lavori dello studio. “Gli archivi hanno un immenso bisogno di essere raccontati, studiati, digitalizzati, conservati. Ma ci vuole la narrazione. Le nuove generazioni hanno un bisogno estremo di questo aspetto visivo che fa parte della loro vita perché hanno i cellulari, i video, immagini che si scambiano in continuazione”. Le fa eco l’architetto genovese che sfata un po’ il mito degli archivi come teche contenenti solo lavori perfetti: “Nel nostro caso forse è un pochettino diverso perché importa molto anche la cosa malfatta, la cosa che è servita solo da trampolino, come quando devi passare un fiume: passi da una pietra all’altra, passo per passo, e alla fine sei arrivato dall’altra parte”.
Francesca Molteni e l’impresa di seguire con le telecamere le famose casse rosse di Renzo Piano, contenenti progetti, bozzetti, disegni e plastici
Qualche anno prima un’altra regista milanese, Alina Marazzi, ha realizzato il toccante documentario “Un’ora sola ti vorrei” (2002), il racconto di una figlia, la regista stessa, che ricostruisce il volto e la storia della madre suicida, Luisa Marazzi Hoepli, attraverso molti filmati in Super8 girati dal nonno, l’editore Ulrico Hoepli. Si dice che “l’archivio è il futuro del documentario” e l’uso di materiali d’epoca, filmini amatoriali in Super8 e in 16 millimetri, comunemente chiamato “found footage”, film ritrovato, è al centro dell’attenzione per i registi di tutto il mondo. I casi più interessanti sono i film documentari “Diego Maradona” (2019) di Asif Kapadia e “Prima della fine. Gli ultimi giorni di Enrico Berlinguer” (2024) di Samuele Rossi: il primo ricostruisce la folle parabola del calciatore più trasgressivo di tutti i tempi e il secondo gli ultimi giorni di vita del segretario del Pci. In entrambi i casi la narrazione è affidata esclusivamente a filmati provenienti da archivi, spesso inediti e ritrovati, di televisioni private, filmmaker amatoriali e tv di stato. O ancora “Apollo 11” (2019), il documentario che il regista Todd Douglas Miller ha realizzato in occasione del 50° anniversario dello sbarco sulla Luna: un lavoro certosino durato tre anni tra le centinaia di ore di girato mai proiettato di proprietà del Nara, l’Archivio nazionale statunitense, che custodisce documenti governativi e storici.
Caos e transitorietà sono le due forze che animano ogni archivio, dove costantemente si combatte l’impari battaglia della digitalizzazione e catalogazione, per rendere il tutto accessibile al grande pubblico. Ma fino a quando un archivio rimane nelle famose teche è come se non esistesse: il regista statunitense Brett Morgen per esempio, autore del documentario “Moonage Daydream” (2022) su David Bowie, ha scoperto solo dopo la morte della rockstar dell’esistenza di un’enorme quantità di filmati inediti ossessivamente raccolti dal musicista per tutta la sua vita. Gli sono poi serviti cinque anni per rivedere tutto, scoprendo così immagini che nessuno aveva mai visto, per un affresco che traghetta la rockstar verso un ricordo eterno.
Il viaggio tra gli archivi vivi fa tappa a Bologna, dove da più di vent’anni la Fondazione Home Movies – Archivio nazionale del film di famiglia raccoglie, restaura e valorizza il patrimonio audiovisivo del cinema amatoriale, con più di 40.000 film su tutti i formati storici (tra i tanti: Super8, 16mm, Vhs), un flusso di ricordi ed esperienze provenienti da tutto il paese e da tutte le epoche. Le abili mani degli operatori della Fondazione preservano questi ricordi ed esperienze in un’ottica educativa e artistica che parte dall’archeologia dei media per un viaggio verso il futuro, consapevole che i famosi “filmini di famiglia” acquistano un significato maggiore solo nel momento in cui escono dall’archivio stesso e si mescolano col mondo e con lo sguardo d’altri.
Alla mostra “Moda in Luce 1925-1955” si scoprono rarità come il filmato sulla manifattura del Borsalino o quello nell’atelier di Coco Chanel
“Nell’archivio dell’Istituto Luce ho trovato non solo una squadra di lavoro eccezionale, affettuosa, ragazzi e ragazze che adorano il lavoro che fanno, innamorati del loro archivio”, mi racconta a Firenze Fabiana Giacomotti, curatrice della mostra “Moda in Luce 1925-1955. Alle origini del Made In Italy”, “quell’archivio smisurato è una specie di Crono che mangia i suoi figli, perché se tu inizi a dare un’occhiata oltre a quello che stai cercando ti travolge con la sua ricchezza”. La mostra sulle origini della moda italiana, inaugurata lo scorso 17 giugno e aperta fino al 28 settembre presso le Gallerie del Costume di Palazzo Pitti, è promossa dal ministero della Cultura e organizzata e realizzata proprio da Archivio Luce Cinecittà: ricostruisce trent’anni fondamentali di storia della moda italiana prima della sua definitiva affermazione internazionale, anni in cui, come dichiara Fabiana Giacomotti in conferenza stampa, “si fondano la nostra coscienza critica e la nostra storia e la nostra indipendenza”. Anche in questo caso l’archivio del Luce, che solo alla voce “moda” ha raccolto oltre 600 immagini e 2.778 filmati dal 1925 alla fine degli anni 80 tra sfilate italiane e straniere, ha permesso di scovare delle autentiche rarità mai viste prima: dal filmato muto del 1925 sulla manifattura del cappello di feltro Borsalino, a quello del 1933 nell’atelier della mitica Coco Chanel col suo ingegnoso sistema di specchi, o il documentario del 1949 “Sette canne per un vestito” di Michelangelo Antonioni che ancora si firmava Michelangiolo. Aprire questi archivi al pubblico è un’importante e simbolica operazione culturale che, raccontando il passato della manifattura specializzata e dell’eccellenza manuale italiana, traghetta l’idea della moda nel futuro dell’industria. Complice il fascino dello storico palazzo, la mostra fa rivivere in modo puntuale la trasformazione dei costumi del nostro paese: il volto di Fabiana Giacomotti si illumina quando indica il soprabito in velluto nero e collo di ermellino di Sandro Radice del 1936, o quando racconta di donne straordinarie come Maria Monaci Gallenga che a Parigi apre la sua prima boutique di moda italiana già nel 1926. Al prezioso patrimonio dell’Archivio Luce sono affiancati capi e accessori provenienti da prestigiosi musei come Palazzo Morando, Boncompagni Ludovisi, Fortuny, e da archivi privati e aziendali come Ferragamo, Gucci, Emilio Pucci e Missoni, che Giacomotti ha selezionato per trasformare questa enorme teca in memoria del futuro.
L’ultima tappa di questo viaggio negli archivi vivi è a Palermo, dove Florinda Saieva e Andrea Bartoli, fondatori del Farm Cultural Park di Favara, a due passi da Agrigento, stanno ultimando i lavori per l’apertura del 5 luglio di “Countless Cities”, la Biennale e Museo delle Città del Mondo, ospitata nell’ex Convento dei Crociferi, nel cuore della Kalsa, che diventerà un grande archivio di arte, architetture, suoni e racconti delle città di tutto il pianeta, da Astana a Caracas, da Detroit a Kinshasa.
Il grande etnomusicologo texano Alan Lomax, colui che ha registrato e catalogato tutti i suoni del mondo, aveva definito il suo viaggio in Italia alla ricerca delle musiche della tradizione popolare come “l’anno più felice della mia vita”, che è anche il titolo del suo bel libro edito dal Saggiatore: lo sterminato archivio di Lomax oggi è online e disponibile gratuitamente e raccoglie, oltre al blues del Mississippi e alle musiche tribali africane, quelle degli zampognari di Caggiano e le foto della tonnara di Sciacca. Migliaia di voci e immagini pazientemente raccolte e conservate per regalare, a chi verrà dopo, la scoperta della meraviglia.
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