I miei istanti. Cosa significa nascere in bilico tra due epoche per Edoardo Albinati


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Il nuovo (e forse ultimo) romanzo e il fascino dell’incomprensione. “I figli dell’istante” è un polposo romanzo corale, quasi russo, zeppo di personaggi che vivono il loro warholiano quarto d’ora di gloria
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La sola altra volta che ho visto dal vero Edoardo Albinati è stato nel 2016 a un’istruttiva presentazione romana di La scuola cattolica, il romanzo che l’avrebbe consacrato con il premio Strega. Mi ricordo di aver rimpianto di non essermi portato un taccuino dietro e, per qualche strano inghippo della memoria, che Albinati indossava avventurosi pantaloni bianchi. Eravamo all’Auditorium e si respirava un’inconsueta aria di attesa per un libro considerato un evento letterario. Lo avrebbero confermato i molti interventi dal pubblico gremito di scrittori: un elogio ammirato di Veronica Raimo, uno venato di polemica da Christian Raimo (e chi sennò), mi pare disse qualcosa anche Elena Stancanelli, forse pure Pacifico. Sembra l’inizio di una barzelletta e, in effetti, almeno un aneddoto divertente venne fuori. Nel tempo, anzi, ha assunto i contorni quasi della leggenda. Sul palco con Albinati, c’era Francesco Piccolo. Prima di concentrarsi sulla separazione del maschio, Piccolo esordì raccontando che quando si occupava della sezione libri della rivista Amica rifilava ad Albinati, che insegnava a Rebibbia, tutti gli scarti e le ciofeche che non voleva recensire. Finché un bel giorno Albinati non gli ha telefonato per dirgli: “Ma questi già stanno in carcere, perché dovrebbero leggersi la monnezza che non piace nemmeno a te?”.
Sono passati quasi dieci anni, ma lo charme di quello che una sua stimata collega mi aveva descritto come “lo scrittore più bono fra gli italiani” è rimasto intatto. Dolcevita nero, gesti misurati e parsimoniosi, mi accoglie in un soggiorno arioso, dove oltre a un pianoforte, ai libri e a un tavolo di lavoro c’è un altro tavolo, ma da architetto. “E’ di mia figlia, anche se da molto tempo i progetti si fanno al computer. Per fortuna ho trovato un amatore che se lo verrà a portar via…”. Siamo nel fatidico quartiere Trieste già teatro dei fatti de La scuola cattolica e l’occasione è l’uscita de I figli dell’istante (Rizzoli), l’ultimo libro di Albinati, il terzo del ciclo “Amore e ragione” che è andato componendo in questi anni. Questo, però, come ci tiene a sottolineare lui stesso, si può leggere indipendentemente dagli altri due. E’ un polposo romanzo corale, quasi russo, zeppo di personaggi che vivono il loro warholiano quarto d’ora di gloria, talmente affollato che c’è bisogno di una mappa in fondo al libro per tenere traccia di tutti i loro incastri. Siamo agli albori degli anni 80, anzi no, non sono ancora cominciati: “I personaggi di questo libro non appartengono più al decennio precedente e non ancora a quello che seguirà, sono appunto ‘figli dell’istante’, in bilico tra due epoche”. Fra tutti questi figli di penna, Nico e Nanni torneranno spesso anche in questa conversazione: “Due personaggi concavi, servono da collegamento con chi gli sta intorno. Nanni vive in una specie di gineceo, circondato dal femminile. Nico invece lo va inseguendo di qua e di là” mi dice Albinati. “Per me era importante evadere dal maschile dopo averlo tanto interiorizzato, analizzato e smascherato, mentre in questo libro sento più mia la voce dei personaggi femminili”.
Ci accomodiamo su un divano e io da bravo scolaretto attacco con la geografia – orografia, idrografia, clima – di un romanzo senza toponimi. Questa mancanza di riferimenti è uno stratagemma per straniare il lettore come si fa nelle distopie? “Lo straniamento serve a raccontare daccapo quello che per noi è scontato. Non ho voluto dare indicazioni dei luoghi perché preferivo arrivarci per via descrittiva, senza nominarli, come se venissero avvistati per la prima volta, però il lettore potrà intuire dove ci si trova: la città sull’acqua affollata di turisti o un’isola vulcanica, la capitale morale oppure il vicino lago con le ville dei ricchi. Se descrivo un torreggiante duomo irto di pinnacoli, be’, fa tutto un altro effetto rispetto a chiamarlo col suo solito nome. Tanto più che la ragazza che sale sopra questo assurdo manufatto lo sta vedendo per la prima volta in vita sua!”. Allo Stivale è dedicata un’elegia iniziale, ma nel libro è anche un cimelio di infanzia custodito da Nanni, un plastico fatto di dorsali scoscese, asperità, gobbe e valli, che a un certo punto verrà perduto in maniera irreparabile. E’ quello che è successo al paese che descrivi? “No, quel paese c’è ancora, ce l’abbiamo fuori dalla finestra. Lo Stivale è uno dei protagonisti del libro, il luogo in cui questi personaggi sciamano e si disperdono. E siccome questo paesaggio è così variato, volevo approfittarne. Spiagge e montagne, laghi e isole. Molti di questi set sono stati scelti perché pensavo che avessero la medesima importanza delle storie che vi si svolgevano. E’ impossibile coprire l’intero paese, ma ci si trovano molte delle sue ‘offerte’ che ancora oggi emanano fascino e attirano in maniera anche morbosa gli stranieri, nonostante lo strazio e la devastazione delle coste, il delirio turistico delle città. Nell’elegia iniziale ho fatto mio lo sguardo degli italiani su loro stessi, ma anche degli stranieri che venivano a fare il Grand Tour nel belpaese”.
Se i luoghi non hanno un nome, sui personaggi ti sei sbizzarrito. Ne elenco un po’: Nico Quell, Guido Cetrangolo, Lodovico Ragghianti, Gerolamo Majno, Enobarbo, Rita Valtorta eccetera. Sembra di leggere i titoli di coda dei film di una volta. “L’elenco dei commilitoni di Nico scanditi durante il contrappello l’ho aggiornato e modificato fino all’ultima bozza. Mi affascina l’onomastica, i nomi che suonano e ci parlano. La formidabile lista dei cani di Atteone nelle Metamorfosi di Ovidio, per esempio. Scegliere i nomi è una delle poche cose divertenti quando si scrive. Io ne faccio collezione, e ho anche un quadernetto di titoli di libri che non esisteranno mai”. Quindi, vengono prima i nomi dei personaggi? “Il personaggio è un’emanazione del nome che lo battezza. Nome e fisiognomica sono già il suo destino, forse è così anche nella vita, sicuramente lo è nei romanzi. Il viso e il corpo dell’altro ci dicono subito tutto. Quel corpo, quegli occhi, il nome, ecco, sono già presenza, parusia, per usare un termine filosofico”.
Ma torniamo ai luoghi, ce ne sono due, quelli che frequenta il giovane Nico Quell, che sono descritti a lungo un po’ come palestre di vita: la casa editrice Minaudo, “scuola di stile e galleria di personaggi a loro modo esemplari, un corso rapido per imparare come funzionano le cose e come si pongono tra loro le persone”, e la caserma, che invece è una scuola di potere, che insegna la ripetizione e l’angheria. Sarà mica questa vita trascorsa nell’istruzione che fa leggere tutti i luoghi come occasioni di apprendimento? “Guarda, malgrado possa sembrare il contrario, io ho una scarsa vocazione all’insegnamento. Non ho la pretesa di convincere qualcuno né di essere il maestro di nessuno o trasmettere alcunché. Ne I figli dell’istante tutti i personaggi passano bruscamente dall’ignoranza alla consapevolezza, imparano qualcosa senza però alcuna garanzia di essere capaci di utilizzare le loro scoperte. Molte delle mie storie sono prove o iniziazioni, riti di passaggio, il momento della verità. Pensiamo a Berio, l’intellettuale in punto di morte, che secondo logica attraverso il dolore dovrebbe accedere a una qualche verità ultima, eppure il senso della vita forse rimane quello dei Monthy Python: fondamentalmente l’esistenza è assurda e malgrado le esperienze accumulate l’enigma rimane tale”. Non si salva nessuno? “Forse l’unica persona di tutto il libro che diventa grande davvero è una bambina di dieci anni, Maria. La consapevolezza non le eviterà sofferenze, anzi forse le acuirà. Gli adulti restano più immaturi di lei. E però, se i personaggi fossero già tutti maturi il romanzo non esisterebbe. Ogni romanzo è un romanzo di formazione. Una certa immaturità la conserviamo fino alla fine. Shakespeare dice: Ripeness is all, la maturità è tutto. Ma appunto perché è il tutto, non possiamo catturarla per intero”.
Per rimanere in tema apprendimento, sempre senza nominarle, scrivevi che Milano è una città pedagogica, mentre Roma non insegna niente. “Ma a Roma di insegnamenti ce ne sarebbero pure troppi, il problema è che da essi non si impara un granché. Invece, a Milano, perlopiù ci si va per lavorare, e il lavoro resta la scuola di vita primaria. La struttura concentrica e gerarchica della città, ordinata per classi e appartenenze, è molto più chiara rispetto a una città come Roma in cui gli strati si mescolano e si confondono. Roma è la città del disordine spettacolare, forse per questo ha affascinato i registi. C’è una compresenza di epoche e il rischio è di pensare che ci sia già stato tutto quello che poteva succedere e dunque non accadrà più nulla. Il che porta a questa forma di scetticismo che spegne ogni entusiasmo e conduce dritti alla miscredenza, a un nichilismo di fondo. Ha però un vantaggio: qui le gerarchie, che altrove vengono rispettate e persino adorate, crollano sotto i colpi del disincanto. E i profeti si scopre che sono quasi tutti falsi profeti. Flaiano docet”.

Tormente di neve in cui delle bambine si perdono in montagna assieme a un accompagnatore improvvisato, Nanni che si addormenta in spiaggia dopo un brutto incontro con una tracina e non ritrova più sua figlia, un tentativo di suicidio disinnescato. Ci si prepara al peggio ma poi la tensione si dissolve, le tragedie nel tuo libro sono quasi sempre solo sfiorate. “Ora ti sembrerò megalomane, però è un po’ come nelle ultime opere di Shakespeare, La tempesta e Misura per misura, in cui ci si astiene dalla soluzione drammatica finale. Come diceva in maniera geniale Tomasi di Lampedusa, è come se a quel punto Shakespeare dicesse agli umani: andate a farvi benedire. E’ inutile che io stia a punire il cattivo, che Macbeth muoia, perché tanto questa lezione che gli umani dovrebbero ricevere, non la capiscono, cioè, non la capiamo. La vita continuerà con i suoi alti e bassi. Inutile applicare al romanzo una morale. Nelle mie storie si può godere solo dell’incompiutezza. Anche perché la compiutezza significherebbe la fine, la morte. Quasi tutte rimangono aperte, anche i rapporti erotici sono inconclusi. Non vi è pienezza in questo libro se non nell’istante. Leggendolo istante per istante, allora forse la si può ritrovare, nelle sospensioni e non nella durata. Diceva Peter Handke che persino in una tormenta, se isoliamo il dettaglio di un fiocco di neve che si posa su un ramo, in quel frammento delicato possiamo trovarci splendore, quiete, meraviglia. Anche se il quadro generale resterà minaccioso e caotico. Visto che il senso pieno non è raggiungibile, almeno godiamo degli interstizi e delle crepe. Forse sta qui la non-morale del libro”.
Tragedie solo sfiorate. “Sembrerò megalomane, ma è come nelle ultime opere di Shakespeare, in cui ci si astiene dalla soluzione drammatica finale”
Ma non sarà che tutti questi personaggi e questi istanti li hai scritti perché altrimenti ti saresti scocciato a seguirne soltanto una manciata? “Leggendo io mi annoio quando dopo venti pagine posso clonare avvenimenti e scrittura e capisco dove l’autore andrà a parare. E’ come nei dibattiti televisivi in cui vedi chi sono gli ospiti e sai già cosa diranno dalla prima all’ultima parola. Il partito preso, insomma. Allora cerco di annoiarmi e di annoiare un po’ meno scoprendo nei miei personaggi alcune cose impreviste e che magari nemmeno loro sapevano di sé stessi. Il romanzo è questa rivelazione: vai in battaglia e vediamo se sarai coraggioso o vile, prima non puoi saperlo, finché non affronti ‘il segno rosso del coraggio’. Nel mio romanzo persino il villain non lo è fino in fondo, magari in un episodio scoprirai che ha un lato mite, adorabile. In alcuni generi letterari, per esempio la satira o la commedia, vanno bene i tipi fissi, come l’avaro o lo spaccone, nel romanzo no. Per esempio, il lato sentimentale è sempre imprevedibile, proprio per questo il topo di biblioteca che io chiamo il Coboldo, invece che trovarsi una Cobolda s’innamora della bellissima e irraggiungibile Sheila. E lei incredibilmente lo ricambia. E’ così, mi piace mettere in campo contrasti e contraddizioni. Sennò sai che palle la vita”.
Nanni nel romanzo sostiene che comprendere qualcosa significa consumarla e alla fine non ne rimane niente. L’incomprensione è affascinante e mette in moto il desiderio. Tu ti senti un incompreso sotto sotto? Un inclassificabile? Per questo cambi pelle a ogni libro? “La risposta è secca: sì. Incompreso persino da chi mi comprende. So di provocare sconcerto anche nelle persone più intime. Nemmeno io mi conosco per intero. Questa ignoranza, anche se crea disagio in chi la vive, provoca però un desiderio di indagare, di approfondire. Anche all’interno di una coppia, un certo tasso di incomprensione dell’altro permette che continui una ricerca reciproca”. Però pure tu un po’ ti diverti a confondere i critici? “Ma no, non è un gioco, o forse lo è ma senza malizia. Solo nel mio primo libro, Arabeschi della vita morale, avevo messo un esergo firmato E.A. e tutti pensarono: ammazza che arroganza questo qui, autocitarsi in epigrafe! E invece era Edward Albee, un quasi omonimo. A posteriori, nei confronti dei miei ipotetici lettori provo una certa tenerezza, poverini, ogni volta non sanno cosa aspettarsi. Ma mi va bene così. Ci sono autori che creano una fidelizzazione, io invece ricomincio ogni volta da zero. Adesso in che modo scrivo? Devo capire non solo cosa ma come lo scriverò. Non essendo un vero romanziere, tantomeno un romanziere seriale, devo tentare una strada nuova. Per dirla, di nuovo, con i Monthy Python: ‘… e ora, qualcosa di completamente diverso!’. Capisco che possa provocare sgomento: il libro lunghissimo, poi quello corto, la prosa, la poesia…”.
“A posteriori, nei confronti dei miei ipotetici lettori provo una certa tenerezza, ogni volta non sanno cosa aspettarsi. Ma mi va bene così”
A proposito di farsi capire: Berio, un altro dei tuoi personaggi, quest’intellettuale che dovrebbe finalmente scrivere un libro dopo una vita passata un po’ a nascondersi, fa leggere alla figlia una lettera di Platone come se fosse un messaggio cifrato. Ma non è che il romanzo è il modo migliore per nascondere una confessione o contrabbandare una riflessione su di sé o sugli altri? “Il romanzo deriva dalla confessione. La prima volta che si racconta cosa succede nel cuore umano sono le Confessioni di Sant’Agostino. Il romanzo è la versione laica della confessione e, come nel sacramento, vi si confessa ciò che non diremmo a nessun altro, l’inconfessabile, appunto. E lo si fa schermati da una grata. Dentro ci possiamo mettere quello che non oseremmo mai dire a una persona in carne e ossa. Quando mi chiedono se scrivendo penso ai lettori, la risposta è no. Perché se ci pensassi sarei imbarazzato, come quando devo raccontare cose intime di cui mi vergogno.
“Il romanzo è la versione laica della confessione e, come nel sacramento, vi si confessa ciò che non diremmo a nessun altro. Schermati da una grata”
Mentre se parlo a nessuno, cioè scrivo, lì posso essere sfacciato e a disposizione del racconto, senza remore”. E cosa rimane ancora da dire dopo tutti questi libri? “Qui lo dico e qui non lo nego, può darsi che questo sia il mio ultimo libro. Temo di aver dato quasi tutto quel che avevo da scrivere o da inventare. Ma semmai ci fossero altre storie in futuro, forse seguirei uno soltanto dei personaggi scappati da questo romanzo, che ancora potrebbe avere una voce”. Speriamo che questa fuga riesca, allora. Prima di andar via, però, gli faccio una domanda che mi ronza in testa da un po’. Ma com’è che quasi tutti gli scrittori romani tifano Lazio? E’ per quella storia della letteratura di minoranza di Deleuze e Guattari? “Una spiegazione l’ho trovata in un tifoso che diceva: tu sei diventato della Roma perché in classe tua erano tutti della Roma, io sono diventato della Lazio perché in classe mia erano tutti della Roma. Per distinguersi, dunque? Non saprei. Un paio di anni fa ho tenuto una Lazio Magistralis sull’argomento”. Ancora una lezione, e poi dice che non c’è da imparare. Stavolta il taccuino, però, me l’ero portato dietro.
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